Ecco un altro degli articoli extra-redazionali che non sono stati selezionati per il numero di novembre 2019, pur essendo imperdibili. Il FiloSoFarSoGood di questo bimestre è stato dedicato al tema del Suicidio (il pdf della rivista è scaricabile da QUI)
Foster Wallace e il rischio del suicidio per il Soggetto Ricorsivo
di Gianluca Bartalucci
“Era apparso diverse volte, la settimana prima,
senza preavviso, in vari punti della città,
appeso a questa o quella struttura,
sempre a testa in giù, con indosso giacca e pantaloni,
una cravatta e scarpe eleganti.
Richiamava alla memoria, naturalmente,
quei momenti assoluti nelle torri in fiamme,
quando la gente era precipitata,
o era stata costretta a saltare.”
Don DeLillo, L’uomo che cade
Rileggere l’opera di David Foster Wallace ex post, dopo che la moglie Karen Green, la sera del 12 settembre 2008, lo trovò impiccato nella sua casa a Claremont, in California, significa costringersi all’indagine dei sintomi. Si dice che Wittgenstein, uno dei suoi eroi giovanili, in punto di morte avrebbe vonnegutianamente sussurrato “Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa” – nonostante avesse avuto due (o tre) fratelli suicidi e lui stesso avesse pensato più volte di togliersi la vita. L’uscita di scena di Wallace non presenta invece alcuna discontinuità col suo cammino, infettato da una depressione più che ventennale spesso controllata con estrema difficoltà, è un passaggio crudo, violento eppure meditato, in linea con la sua produzione letteraria.
Nel racconto Caro vecchio neon (Oblio) Wallace scrive: “[…] lo so che questa parte è noiosa […], ma si fa più interessante quando arrivo alla parte in cui mi uccido […]”, ed è impossibile, a posteriori, non fare due più due concludendo che autore e narratore siano pericolosamente vicini. In Infinite Jest i sintomi, i segnali d’allarme, sono innumerevoli. Pensiamo per esempio all’allegorico tennista che entra in campo con una pistola in mano (e la racchetta nell’altra) minacciando di uccidersi in caso di sconfitta, col risultato che tutti gli avversari, a scanso di equivoci, lo faranno sistematicamente vincere. Pensiamo a quelle decine di pagine, verso tre/quarti del libro, che sono una sentita tirata sulla depressione e che tratteggiano il suicida prototipico come colui che suo malgrado si butta giù dal palazzo in fiamme perché, per quanto tema la caduta, il fuoco incombente gli risulta ancora più intollerabile. In questa ottica, l’incendio da cui scappare sono proprio i paralizzanti processi cognitivi di Hal, uno dei protagonisti, il cui tortuoso cervello ricalca fin dall’incipit (“Sono qui dentro”) quello dello stesso Wallace. Il fratello di Orin e Mario Incandenza possiede la capacità di vedere in ogni situazione nient’altro che la fredda e distillata verità – solo che non sa immaginarne il sapore, non riesce a dare un senso all’esperienza. Il problema del Soggetto Ricorsivo destinato a gettarsi dalla finestra è che ai suoi occhi l’universo intero consiste solamente in una sterminata prateria di puri segni in cui, parafrasando Dennett, il significato di per sé non esiste. Se assume che tutto sia puro segno, in seguito si interroga sul significato di segno, poi sul significato di significato, infine sul senso ultimo del proprio io indagante. Tutto è vuoto, stabilisce, e anche lui stesso (motore semantico teorico) non si rivela che un segno come un altro – a meno di non usare e abusare dell’erba, come fa Hal-Wallace, per frenare e normalizzare l’attività interiore, per dare qualche saltuaria spallata al loop.
Il Soggetto Ricorsivo si infila nel labirinto metacognitivo e ci si perde, talvolta compiacendosene, mentre la vita gli scorre accanto, parallela e ineffabile, più lineare di quanto mai possa immaginare, una vita dal senso oggettivamente illusorio – il giro di giostra di Bill Hicks – ma l’unica concessaci. Un’illusione che talvolta assume addirittura i caratteri grotteschi della crociera di Una cosa divertente che non farò mai più, il ritratto di un viaggio nel lusso più parossistico su cui un Wallace ancora ferocemente carico di quell’ironia che di lì a poco deciderà di accantonare fa spesso aleggiare un fortissimo senso di morte.
Il dattiloscritto del postumo Il re pallido è stato collocato da Wallace in modo che la moglie potesse trovarlo non appena resasi conto della tragedia e lo connettesse ad essa. Il re pallido è un romanzo incompiuto che doveva fondarsi su un’idea centrale: si può parlare della noia non annoiando il lettore e infilando se stesso – annoiato – dentro il romanzo stesso? Tema ovviamente irresistibile per il Soggetto Ricorsivo, che su di esso negli anni ha sfornato migliaia di pagine (molte ancora inedite) con l’obiettivo di assemblare qualcosa che fosse anche solo all’altezza di Infinite Jest e ricordasse al mondo e all’autore stesso che l’autore è bravo, l’autore è capace, l’autore non è un impostore. Il romanzo non solo rivela sintomi in gran quantità, come il resto della produzione, ma rappresenta qualcosa in più. È infatti il simbolo scelto da Wallace per esprimere la propria resa. Wittgenstein, ma al contrario: dì loro che la mia vita è stata un incompiuto, un fallimento.
Può un uomo dalla mente ricorsiva, che ha letto Gödel, Escher, Bach e l’ha capito davvero, essere non-infelice? Solo la mente ricorsiva, paradossalmente, può forse rispondere con la competenza necessaria: no, non può. E ne trae conclusioni che sono incomprensibili a tutti gli altri.
Quel che resta al Soggetto Ricorsivo è sconsigliare al prossimo di intraprendere un certo tipo di cammino, come nel commencement speech di Questa è l’acqua. Scegliete cosa pensare, suggerisce in uno slancio empatico, tenete a bada sia i bassi istinti che l’ambizione logorante dei vostri cervelli, agite il più possibile da motori semantici. Non siate come me. L’insistita fuga dal sistema è una tentazione eccitante – esiste sempre un sistema esteriore, superiore, più astratto in cui trovare rifugio, e se fuggite una volta, fuggirete una seconda, una terza, e vi piacerà, eccome se vi piacerà, vi farà sentire di un’intelligenza speciale, e poi non vorrete smettere più, finché non verrà il giorno, e verrà, in cui le fiamme non saranno così imponenti e inevitabili che vi rimarrà un solo modo per chiudere alla svelta ogni discorso.
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Gianluca Bartalucci è laureato in Comunicazione e Psicologia. Ha scritto il romanzo breve L’anno di Kurt (Cento Autori editore). Il suo racconto Memolabile è stato pubblicato nella recente antologia Vocabolario minimo delle parole inventate (Wojtek).