Ecco un altro degli articoli extra-redazionali che non sono stati selezionati per il numero di novembre 2019, pur essendo imperdibili. Il FiloSoFarSoGood di questo bimestre è stato dedicato al tema del Suicidio (il pdf della rivista è scaricabile da QUI)
Durkheim, Camus e la forma del dialogo
di Federico Rossato
Davanti all’abisso del Nulla, l’uomo non può che provare un terrore paralizzante, ma al contempo eccitante ed attraente: la placida isola d’ignoranza di Lovecraftiana memoria non è abbastanza, l’occhio desidera vedere più di quanto non riesca. L’amore e la morte, dunque, convivono contemporaneamente nel desiderio umano di scorgere qualcosa in più, qualcosa di nuovo in quell’abisso che giace nella carne di colui che lo ammira. Ed è dalla voragine che emergono piccoli sussurri, i quali vanno a formare idee, concetti, frasi, dialoghi ed in definitiva La forma della voce.
Shōya Ishida, protagonista dell’opera di Yoshitoki Ōima in cerca di redenzione per il suo passato da bullo, forte di quella voce proveniente da dentro di sé che gli ricorda quanto lui non riesca a comprendere il mondo che lo circonda, crede, inizialmente, d’aver trovato una risposta al problema che Camus riteneva fondamentale per la filosofia, ovvero il suicidio. “L’inferno sono gli altri” scrisse Sartre in A porte chiuse e così è per Shōya, colpevole d’essere stato l’incubo di Shōko Nishimiya, una povera bambina sorda che sarà fulcro della narrazione dell’autrice. Un piede, poi l’altro e quindi un respiro oltre la transenna di un ponte, i flutti al di sotto che fanno da eco all’abisso: questa è la presa di posizione di un ragazzo che ha smesso di comprendere il mondo una volta persa l’idea che s’era formato di esso, ora vittima delle stesse sevizie inferte. Émile Durkheim pose sotto la lente d’indagine del suo pensiero proprio la questione del suicidio, focalizzandosi sulla relazione tra l’individuo ed il contesto in cui è immerso. Lo studioso di Épinal, se interrogato su cosa avrebbe potuto spingere Shōya, avrebbe risposto parlando di un caso di anomia acuta, ovvero quella situazione di cambiamento drastico tra le aspettative normative e la realtà vissuta. Ecco che emergerebbe quindi la sua definizione di “suicidio egoistico”: come potrebbe mai un ragazzo che ha perso il proprio mondo, alieno rispetto a quello in cui vive, proseguire lungo un cammino così estraneo? Ecco, quindi, perché Shōya volesse prendere la pillola azzurra di Morpheus: la vita è troppo lunga e troppo breve per essere vissuta senza comprenderla. Qualcosa, però, frena quell’ultimo sospiro di vita, brillando per qualche secondo: un fuoco d’artificio. La profezia dell’Idiota dostoevskiano diventa realtà: quella schilleriana bellezza cantata dal principe Miškin può rendere una vita degna d’essere vissuta.
Ma nell’opera di Ōima c’è un qualcuno colpito da una tragedia ancor peggiore di quella del povero protagonista: la vittima estranea, Shōko Nishimiya. Rispetto a Shōya, Shōko è condannata ad una sorte peggiore, poiché comprende le parole del mondo intorno a sé: mentre l’una è sorda fisicamente, l’altro è sordo spiritualmente. La sua estraneità non deriva dalla propria percezione del mondo, bensì da una forza che un giorno lontano la condannò ad esserlo per coloro che la circondano. Mentre il bullo non trova se stesso, la sua croce è il sapere fin troppo bene dov’è. “Mi dispiace” è la frase di Shōko, il suo modo di fare fronte a quel mare di affanni che la sommerge quotidianamente e di cui si sente responsabile, o viene resa tale dalle parole altrui. Ecco che emerge l’ennesima simile differenza tra Shōya e Shōko: entrambi sono maledetti dall’incomunicabilità. Mentre lui non riesce ad ascoltare il mondo, lei non riesce a comunicare con esso: lui s’è reso sordomuto, lei è stata resa sordomuta. Dunque si passa, seguendo Il suicidio. Studio di sociologia di Durkheim, da un suicidio egoistico ad uno altruistico, conservando la natura acuta dell’azione. L’esempio dell’autore è legato alla cultura indiana brahmanica, in particolare al suicidio dei componenti più anziani della comunità per non pesare sulle generazioni attive. Emergono, dunque, due prospettive differenti rispetto alle azioni di Shōya e Shōko: l’uno percepisce il suicidio come un piacere negativo, votato alla rimozione di quello stato di vacuità che l’ha reso alieno; l’altra, invece, come un piacere positivo, poiché va formando delle speranze per uno stato migliore, sia per il mondo che per il soggetto. Eppure, così come per Shōya, qualcosa va fermando la caduta nell’abisso di Shōko: la bellezza per eccellenza, l’amore. Ecco che gli occhi di entrambi non vogliono chiudersi, non nel momento in cui la realtà è dipinta di più colori di quanti i loro sogni possano produrne.
La risposta, dunque, al problema di Camus muta così come mutano gli sguardi di coloro che ne contemplano l’idea: Shōya, Shōko e tutti coloro che calpestano il suolo del mondo sono agenti più complessi delle categorie di Durkheim. È palese, quindi, l’impossibilità di un giudizio morale rispetto ad un qualcosa di più articolato di quanto il linguaggio possa tentare di definire. “Morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male”: sono parole delle Lettere morali a Lucilio di Seneca che fanno da inno alla libertà rispetto all’unica cosa propriamente in possesso dell’essere umano, ovvero il corpo. Essere liberi, dunque, è una questione di scelta, ma come sarebbe possibile definirsi tali senza poter disporre di se stessi? Nonostante ciò, è comunque possibile agire per evitare che il “viver male” sia quello reale, poiché ogni uomo è potenzialmente liberatore del prossimo. Così come Shōya e Shōko si sono salvati l’un l’altra, così chiunque potrebbe porgere il proprio cuore a chi dovesse averne bisogno. Non è limitando la libertà, naturalmente assoluta, di un uomo che esso arriverà alla soluzione definitiva di quella condizione temporanea che è la vita, bensì è l’esatto opposto: mettendo coloro che hanno bisogno in un contesto in cui essere completamente liberi di esprimere se stessi è la chiave. Solo mettendosi in relazione con il prossimo è fattibile un cambiamento: solo mostrandosi è possibile ascoltare, poiché l’empatia è La forma della voce.
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Federico Rossato è nato a Torino in un pomeriggio buio e tempestoso del 2000, studia, recita, scrive e prova a farsi una vaga idea del mondo presso il corso delle Scienze Umane dell’IIS “Marie Curie-Carlo Levi”.